Natale a Orgosolo: i due “Graziano”, don Muntoni e l’ex latitante Mesina

Mesina e Muntoni, i due Graziano.
Da Orgosolo e da Fonni.
Il temibile latitante e il prete martire, il famigerato omicida e la vittima innocente di un’aggressione ancor oggi muta e anonima.
Le due facce di una comunità, anche cinematograficamente parlando, marchiata a fuoco come ventre sempre gravido di “balentes” ma anche capace di partorire limpidi esempi di eroica santità.
In questi giorni ormai prossimi alla luce del Natale, convergono queste due, solo in apparenza, stridenti contraddizioni: il prepotente e mai sopito dolore per don Graziano, giustiziato all’alba del 24 dicembre 1998 mentre si avviava in parrocchia a celebrare la prima Messa, e il notturno scenografico arresto dell’altro Graziano, a calare il sipario di una disperante quanto oramai rassegnata latitanza, alla soglia degli ottant’anni.
Ancora “Banditi a Orgosolo”, dunque, ma anche “santi” a Orgosolo.

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Caterina, la sorella di don Muntoni, scrisse parole disarmanti a proposito di quella morte, rimasta ancora (e per sempre?) impunita: «Era un “prete di strada”, concepiva il territorio come una risorsa, un’opportunità, e per questo usciva e andava in quei luoghi abitati dai ragazzi e dai giovani che in chiesa non avrebbe mai incontrato: i bar, le strade, le piazze, i muretti. Qualcuno forse non ha gradito questa invasione di campo, si è sentito “minacciato” da questo prete che desiderava offrire a quei ragazzi un’alternativa al bar, alla strada, alla piazza, all’alcol, alla noia… No, questo è troppo – devono aver pensato – bisogna fermarlo. E come? Quale modo più sicuro se non quello che loro conoscevano bene e che forse avevano sperimentato altre volte?»
Lo trovarono riverso a terra, ormai privo di vita, con le braccia aperte come un crocifisso, in una mano il breviario e nell’altra le chiavi della chiesa.
Martire a Orgosolo, “santo” a Orgosolo.

In dissolvenza, sfuocando il ricordo ormai più che ventennale di quell’assassinio, oggi riemerge, ancora una volta nei giorni natalizi – da un fondale grigio e silenzioso – la figura del bandito simbolo, a metà fra mito e cronaca giudiziaria, finito in manette e tradotto in tutta fretta in carcere.
Le forze dell’ordine hanno fatto il loro dovere nel dare la caccia e poi “consegnare alla giustizia” il pericoloso latitante. Le leggi, la procedura penale, la magistratura faranno ora quanto di loro dovere.
Ma c’è un filo rosso – andando oltre quella “colata lavica” di luoghi comuni e manifestazioni di bieca volgarità, eruttata dopo il blitz di Desulo – che lega il prete Graziano al Graziano ormai ex latitante, ed è l’amara constatazione della miseria umana, della sua pochezza e finitudine.

Ha scritto ancora la sorella di don Muntoni: «Da quel vicolo stretto e buio di Orgosolo è cominciato per noi il cammino faticoso del perdono. Che non significa scusare, trovare attenuanti al male, dimenticare. Perdonare non è neanche un premio al pentimento di chi ci ha offeso. È, al contrario, un regalo, qualcosa di offerto gratis senza chiedere niente in cambio, che possa consentire a chi ha sbagliato di ricominciare, di rialzarsi, di cambiare vita. Il perdono non si oppone alla giustizia ma alla volontà di vendetta, che è una cosa ben diversa. Spesso viene interpretato come un atto di debolezza, quasi di viltà, in realtà richiede molto coraggio e forza interiore».
Una nuova balentìa, come cantava il profeta laico Fabrizio De André nel suo “Testamento di Tito” a proposito dei farisei e dei benpensanti di ogni epoca che «sanno a memoria il diritto divino ma scordano sempre il perdono», quando fa dire alla madre di uno dei due ladroni, sotto le tre croci nel Calvario: «nella pietà che non cede al rancore, ho imparato l’amore». (pao.mat)

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