I riti sardi della notte di Ognissanti: dai papassini a “is animeddas”

«Questa è la festa dei santi senza candela». Così, immancabilmente, iniziava la predica di un sacerdote, negli anni ’60, che veniva chiamato a celebrare una delle Messe del 1° novembre nella Collegiata di Sant’Anna.

La solennità di Tutti i Santi, anche in Sardegna, nonostante il rango nell’Anno Liturgico, resta solennità liturgica, finendo però per diventare la vigilia del giorno dei defunti che, al contrario, conosce una diffusione di riti e culti in tutte le regioni storiche dell’Isola.
In Sardegna, infatti, il culto dei defunti e la riverenza verso le anime sono antichi come le pietre e non accennano a voler scomparire, a dispetto di moderne mode e tendenze.
Secondo antiche leggende, in occasione della notte dedicata a tutti i defunti, le anime dei morti hanno libera circolazione fra i vivi.

Nella tradizione isolana, la notte del 31 di ottobre si aprono le porte delle abitazioni per accogliere le anime del purgatorio e permettere loro di abitare le case che un tempo furono di loro proprietà, o di visitare quei luoghi ai quali, per l’uno o per l’altro motivo, si sentono profondamente legate.

In molti paesi, dal Campidano al Logudoro, i bambini passano di casa in casa a chiedere un piccolo dono, ceci, fagioli o un dolce ripetendo “seus benius po is animeddas”.

A Ghilarza, il rituale che si teneva la notte di Ognissanti si chiamava askardoppias o iskaddoppias e consisteva nella questua in suffragio dei defunti da parte dei ragazzini, a cui venivano regalate noci e papassine da custodire in un sacchetto realizzato avvolgendo i quattro angoli di un fazzoletto.

Le numerose leggende trovano inoltre riscontro nelle testimonianze archeologiche, come le tombe dei giganti o le domus de Janas (case delle fate).

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