Desideri che conducono alla vita, altri alla «vanità»

Domenica 18esima del Tempo Ordinario – anno C (4 agosto)
Letture: Qo 1,2.2,21-24; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21

«Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita!». Questa follia dell’uomo ricco descrittaci dal Vangelo, assomiglia singolarmente alla nostra stessa maniera di vivere. In fin dei conti, non siamo tutti attratti dai beni della terra e dalle gioie che possiamo trovarvi? Non siamo sempre impegnati a cercare di trarre vantaggio dalla situazione presente, ad accumulare cose che ben presto lasciamo da parte per desiderarne altre? Per vivere questo, non è necessario essere ricco. Forse basta essere uomo.

Perché questa stoltezza dell’uomo ricco, o quello che Gesù qualifica come follia, altro non è che quel continuo desiderio di possedere, di accumulare, di godere sempre più, che contraddistingue più profondamente la nostra esistenza. Si potrebbe addirittura affermare che questo desiderio di avere sempre di più è costitutivo della nostra umanità. Essere uomo significa desiderare, e desiderare sempre più.
Un essere senza desiderio sarebbe ancora un essere umano?

Di fronte a questa logica del desiderio che corrode il nostro cuore e non ci lascia alcun riposo, le grandi saggezze e le religioni di questo mondo hanno proposto due risposte fondamentali. Le prime hanno cercato nel placarsi del desiderio, nella sua estinzione, la via della saggezza: la felicità starebbe nell’assenza di desiderio. Le seconde, invece, hanno voluto fare dell’appagamento del desiderio ad ogni costo il motore dell’esistenza umana: godere fino in fondo la vita, senza rimpiangere nulla, senza timori e ritegno, ecco la via della felicità.

Tra queste due vie estreme, che pongono il desiderio al centro dell’esistenza umana, Gesù ci propone una via ben diversa. Certo, il desiderio è davvero il motore fondamentale dell’esistenza umana, ma non è altro che una forza che si tratta di orientare. Quello che Gesù mette in risalto, non è tanto il cuore che desidera, quanto piuttosto l’oggetto del desiderio. Quello che ci trasforma, quello che ci rende più umani e più veri, più autentici diremmo oggi, non è la forza del nostro desiderio, ma il suo orientamento, il suo senso.

Come sottolinea san Paolo nella lettera ai Colossesi, il passaggio dall’«uomo vecchio» all’«uomo nuovo» si fa attraverso la conversione del desiderio. Come il ladro o il bugiardo, anche i santi sono esseri che bruciano di desiderio. Ma quello che li distingue, è l’oggetto del loro desiderio. Ci sono desideri che non conducono da nessuna parte, che sono solo «vanità delle vanità». E ci sono desideri che conducono alla vita, che danno la vita.

Il problema del cristianesimo non è dunque il desiderio, ma l’oggetto del nostro desiderio. Dio ci ha creati come esseri di desiderio. È compito nostro scegliere di orientare questa straordinaria potenza verso la vita o verso la morte. È la posta in gioco della nostra libertà, portata e sostenuta dalla grazia. Cosa intendiamo fare, cosa facciamo di questa forza di vita che Dio ha deposto in noi? È l’unica domanda autentica, l’unica posta in gioco su cui ci interroga questo brano del Vangelo.

In questo modo abbandoniamo una logica del tutto o del nulla – cercando il nostro riposo nell’estinzione di ogni desiderio o, al contrario, nel loro appagamento immediato e ad ogni costo –, per entrare in un lavoro di discernimento e di intelligenza da ricominciare costantemente. Il problema non è più il desiderio, ma il desiderio del bene, la ricerca di ciò che è giusto, la sete di ciò che è vero. Con Gesù, noi usciamo dalle soluzioni già pronte. Come dichiara san Paolo ai Colossesi, si tratta di diventare quell’ «uomo nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine di Colui che lo ha creato». Il nostro vero problema è dunque imparare a discernere ciò che è buono, accogliere la grazia di sceglierlo e chiedere la forza di compierlo.

Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena
(www.valserena.it)

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