Quanta fatica credere nella vita eterna!

Domenica 32 esima del Tempo Ordinario – anno C (10 novembre)
Letture: 2 Mac 7, 1-2.9-14; 2 Ts 2,16-3,5; Lc 20, 27-38

Ci sono brani del Vangelo che ci turbano e ci lasciano con una sensazione di malessere. Noi vorremmo girare pagina velocemente e passare ad altra cosa. Certe parole scombussolano la mentalità corrente, che impregna così fortemente il nostro modo di pensare. Questo disagio è piuttosto un buon segno.
Esso ci mostra fino a che punto il Vangelo rimane sempre una sfida, anche ai nostri giorni.

In effetti, nella sua risposta ai sadducei, Gesù sottolinea due punti che ci toccano profondamente.
Prima di tutto relativizza quello che costituisce l’essenziale delle nostre relazioni umane: tutto ciò che ha a che fare con la nostra vita affettiva. E poi rimette in discussione una certa visione dell’esistenza che si limita alle realtà di questo mondo.

Dobbiamo riconoscerlo: l’argomentare di Gesù a proposito della relatività dei nostri sentimenti, delle nostre relazioni affettive, ha qualcosa di sconcertante per i nostri orecchi. In effetti, se c’è un argomento che appassiona i nostri contemporanei, al di là delle questioni finanziarie, è proprio la vita sentimentale. Il cuore, e tutto quello che mettiamo dentro questo vocabolo, ha una posizione di rilievo nelle produzioni letterarie e mediatiche. Se la maggior parte delle ideologie e dei tabù sono caduti, c’è pur sempre un tabù che rimane e che oppone resistenza, perfino presso i libertari più fanatici: l’amore.

Ora, Gesù non sembra annettervi altrettanta importanza che noi. Non nega l’importanza della nostra vita affettiva, ma la ricolloca nel contesto più vasto del nostro destino. Le nostre amicizie, i nostri amori non sono un fine in sé: hanno i loro limiti. E, soprattutto, non devono farci dimenticare la nostra vera vocazione, la nostra vocazione eterna.

Ecco, allora, un secondo elemento del discorso di Gesù che urta la nostra sensibilità di uomini e di donne in questo inizio del terzo millennio.
Come i sadducei, venuti per prendersi gioco di Gesù, facciamo fatica a credere nella vita eterna. E se la professiamo nel nostro Credo, molto spesso viviamo e agiamo come se la nostra esistenza si limitasse a questo mondo. Eppure, il messaggio centrale del Vangelo, il fondamento della Buona Novella, è non solo che la nostra vita non cesserà quando renderemo l’ultimo respiro, ma anche che la nostra vita in Dio comincia e si prepara già quaggiù e ora.

La fede cristiana non ha nulla di un umanesimo melenso che si limita a buoni sentimenti e a belle parole per facilitare i rapporti umani e vivere meglio. Le due altre letture ci lasciano già intuire che la fede, nella sua lotta contro il male, potrebbe portarci un giorno o l’altro a prendere dei rischi, fino a perdere la nostra vita. Certo, non abbiamo tutti la vocazione a morire martiri, come i sette fratelli dei quali il brano del libro dei Maccabei ci racconta il destino tragico, ma possiamo tutti ritrovarci nella situazione che san Paolo descrive nella sua seconda lettera ai Tessalonicesi.

Dire e fare il bene, senza sperare di trarne profitto in questa vita, semplicemente perché è bene. Rigettare il male, mentre sarebbe così facile e vantaggioso trarne profitto per vivere un po’ meglio, per sfuggire alle nostre difficoltà: tutto questo spinge l’esigenza ben di là dalle nostre prospettive abituali. Gesù non ha mai sostenuto che saremmo ricompensati in questo mondo! Non ha mai promesso a chi intendesse seguirlo una vita facile e senza preoccupazioni. Ma ci ha assicurato che Dio, il quale vede nel segreto, non ci dimenticherà mai!
Ci ha promesso che il Padre si sarebbe preso cura di noi e ci attende per colmarci del suo amore, nel suo Regno!

Dom Guillaume trappista, cappellano Monastero Cistercense Valserena (Pisa)
(www.valserena.it)

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