PADRE GIULIO ALBANESE: «ECCO PERCHÉ NON STIAMO AIUTANDO L’AFRICA»

Ci lamentiamo per il costante flusso migratorio dall’Africa, diciamo di voler aiutare gli africani “a casa loro”, ma stiamo facendo l’esatto contrario.
Sono numerosi i politici e gli opinionisti che nel nostro Paese affermano la necessità di “aiutare gli africani a casa loro”.


ALBANESE AFRICACiò, purtroppo, non è avvenuto in passato e non sta avvenendo oggi. Anzi, le politiche d’investimento a livello internazionale – occidentali e non solo – attualmente, sono di segno contrario. Si tratta di un paradosso se si considera che stiamo parlando del continente, quello africano, con tassi di crescita superiori a quelli di molti Paesi del Primo mondo. Qui sotto riporto tre questioni chiave, davvero emblematiche.

  1. Anzitutto è bene ricordare che i leader europei, quelli cioè che non vogliono saperne di accogliere i migranti provenienti dall’Africa Subsahariana, farebbero bene a leggere attentamente l’ultimo rapporto dell’Ong britannica, Global Witness. E sì perché, finalmente, comincia ad affiorare la verità sul sanguinoso conflitto centrafricano. Fonti alla mano, il rapporto, intitolato “Legname insanguinato”, svela alcune gravissime interferenze e complicità straniere nel conflitto esploso nel 2012, che ha causato morte e distruzione. Il documento spiega infatti, grazie a testimonianze e documenti inediti, come alcune aziende, impegnate nel business del legname, abbiano finanziato sia i ribelli della coalizione Seleka, sia quelli anti Balaka. Le aziende hanno, insomma, pagato milioni di dollari a questi gruppi armati accusati di crimini di guerra. Global Witness, in sostanza, dimostra, dati alla mano, come tecnicamente queste aziende abbiano siglato vantaggiosi contratti con gli stessi miliziani per acquistare il legname. Si tratta di società appartenenti a imprenditori belgi, francesi , tedeschi, cinesi e libanesi. Il rapporto critica anche l’Unione europea (che formalmente importa 2/3 del legname centrafricano) per non aver sufficientemente vigilato, come richiesto peraltro dalle normative comunitarie contro il commercio di legname illegale. È allucinante che i governi europei abbiano investito centinaia di milioni di euro in operazioni militari e di mantenimento della pace nel Centrafrica, senza poi essere stati capaci di contrastare questo business criminale.
  2. Altra questione cruciale è quella del debito africano. Non solo è tornato salire, ma il rischio è che molti governi non siano in grado di onorare i propri impegni. Quello, per così dire, che “strozza” di più sono gli interessi (il cosiddetto “servizio del debito”). Si tratta di una vera e propria spada di Damocle che potrebbe pregiudicare seriamente la crescita del Pil, quantomeno sul medio e lungo periodo. Ma andiamo per ordine. Nello scorso decennio, grazie al progetto Highly Indebted Poor Countries (Hipc), ad opera del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e della Banca Mondiale (Bm), una trentina di Paesi a basso reddito dell’Africa Subsahariana poterono ottenere una riduzione del debito (circa cento miliardi di dollari). A questo programma se ne aggiunse un altro, la cosiddetta Multilateral Debt Relief Initiative (Mdri). Queste iniziative suscitarono grande euforia perché consentirono a molti governi africani di riprendere fiato, accedendo a prestiti insperati. Nel 2007 il Ghana fu il primo Paese beneficiario ad affacciarsi sui mercati internazionali, emettendo obbligazioni pari a 750 milioni di dollari. Seguirono altri quattro destinatari del condono: Senegal, Nigeria, Zambia e Rwanda. L’accesso ai fondi d’investimento, messi a disposizione dall’alta finanza, soprattutto nella City londinese, ma anche in altre piazze, sono stati utilizzati in parte per sostenere attività imprenditoriali straniere in Africa, ma anche per foraggiare le oligarchie autoctone, secondo le tradizionali dinamiche della corruzione più sfrenata e corrosiva. Sono nate, così, società partecipate che, comunque, nonostante la crescita della produttività, non sono state in grado di compensare la nuova crisi debitoria. I nuovi programmi d’investimento, infatti, non sono stati associati ad organici piani di sviluppo nazionali, col risultato che sono state costruite opere infrastrutturali – vere e proprie cattedrali nel deserto – slegate le une dalle altre, o iniziative imprenditoriali a sé stanti e dunque esposte all’azione predatoria di potentati internazionali, soprattutto sul versante delle commodity (materie prime e fonti energetiche). Nel frattempo, si è innescata sulle piazze finanziarie una speculazione sfrenata sull’eccessivo indebitamento dei Paesi africani che ha determinato la svalutazione delle monete locali. Uno dei casi emblematici è proprio quello del Ghana, considerato per certi versi, sul piano formale, l’emblema del boom africano. Non a caso il primo presidente Usa di origini afro, Barack Obama, nel corso del suo primo viaggio nel continente africano (2009) , scelse di fare tappa proprio ad Accra. L’aumento del Pil e del debito ghanese sono indicativi di una crisi sistemica che ha peraltro pregiudicato qualsiasi iniziativa protesa all’affermazione di un welfare locale in grado di contrastare l’esclusione sociale. D’altronde, se si pensa che il Pil aveva toccato quota 15 % nel 2011 (8,8 e 7,6 nei due anni successivi) e che oggi il deficit non accenna a diminuire e il debito (32% del Pil nel 2008) è già arrivato al 50%, non c’è proprio da stare allegri. Qualche lettore potrebbe obiettare affermando che in alcuni Paesi industrializzati come Italia e Stati Uniti il debito è percentualmente superiore al Pil. Verissimo, ma in Ghana – come d’altronde nella stragrande maggioranza dei Paesi africani – il valore del Pil, in cifre assolute, è ancora molto basso (quello ghanese è di circa 50 miliardi di dollari) e dunque non rappresenta una garanzia per i creditori internazionali (basti pensare che quello della Regione Lombardia è di circa 350miliardi di dollari). Nel 2014 la moneta locale, il “Ghana cedi”, ha perso il 9 % nei confronti del dollaro e Fitch, dopo avere declassato il Paese (da B+ a B), ha confermato un outlook negativo. Riuscirà a questo punto il Ghana a ripagare gli interessi sul debito sovrano? Gli osservatori sono scettici perché, secondo l’Fmi, la crescita nel 2014 è stata “solo” del 4,8 per cento. Ma il dato più inquietante sta nel fatto che per ripagare il debito, oggi, il governo di Accra è costretto a svendere i propri asset strategici (acqua, petrolio, elettricità, telefonia, cacao, diamanti…). Qui le responsabilità ricadono sia sulla classe dirigente locale, ma anche sulle stesse istituzioni finanziarie internazionali le quali pretendono che le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni (soprattutto il land grabbing , vale a dire l’accaparramento dei terreni da parte delle aziende straniere) vengano attuate “senza sé e senza ma”, per arginare il debito. Si tratta di un affare colossale per cinesi, americani ed europei, essendo la moneta locale fortemente deprezzata. Sta di fatto che oggi il governo di Accra ha un doppio problema: è privo di proprie risorse finanziarie ed è sempre più appesantito da un fardello, quello del debito, difficile da sostenere. Lo Zambia, tanto per citare un altro esempio, ha una situazione simile a quella del Ghana, anche se per il momento meno gravosa, ma comunque preoccupante. Leader mondiale nella produzione di rame, ha emesso bond per 750 milioni di dollari nel 2012 e chiede a squarciagola risorse finanziarie ai mercati internazionali. Purtroppo Fitch ha declassato il suo debito nel 2014, malgrado sia ancora al 30 per cento del Pil, mettendo il bastone tra le ruote all’esecutivo di Lusaka. Occorre, inoltre, rilevare che in molti Paesi africani il deficit corrente è aumentato in ragione di una diminuzione degli introiti legati all’export delle materie prime, in conseguenza della debolezza dei prezzi su alcune delle commodity più significative sui mercati internazionali. Il quadro continentale è, comunque, preoccupante anche perché è evidente che gli investimenti non riescono a generare ricavi tali da consentire di mantenere fede ai propri impegni con i creditori internazionali. Di questo passo, però, tra qualche anno, gli africani quasi certamente non saranno più padroni dell’acqua che bevono, del pane che mangiano e dell’aria che respirano. Un impoverimento che, peraltro, potrebbe innescare nuovi e più massicci fenomeni migratori. Idealmente, ampi margini di miglioramento d’altronde vi sarebbero nelle modalità con cui viene effettuata la spesa pubblica e nella lotta alla corruzione. Ma, come ahimè insegnano le cronache nostrane nel caso, ad esempio, di Mafia Capitale, l’Africa non è molto lontana dal Bel Paese.
  3. La terza questione riguarda i contenuti della Carta di Milano, il documento che, idealmente, avrebbe dovuto rendere intelligibili le sfide poste dal tema dell’Expo: “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. Un tema davvero scottante e di grande attualità, guardando all’Africa e al fenomeno migratorio determinato in gran parte da inedia e pandemie. Purtroppo, dobbiamo rilevare con rammarico, che il documento è semplicemente una dichiarazione d’intenti, all’insegna della buona volontà. Nulla di più! Intendiamoci, vengono certamente offerti numerosi suggerimenti – in linea di principio condivisibili, figuriamoci – sulla necessità, ad esempio, di ridurre radicalmente lo spreco del cibo. Detto questo, però, sono state lasciate, per così dire, nel dimenticatoio, le questioni cruciali. Quelle, per intenderci, che stanno a cuore ai nostri missionari che svolgono il loro servizio a fianco dei poveri. È totalmente ignorata la speculazione finanziaria che attanaglia il mercato alimentare, legata alla compravendita di fondi di investimento. Come scritto già in passato dal sottoscritto sulla rivista POPOLI e MISSIONE, si tratta di futures sui prodotti agricoli che non vengono più solo acquistati da chi ha un interesse diretto in quel determinato mercato, seguendo le tradizionali leggi della domanda e dell’offerta, ma anche di soggetti finanziari come i fondi pensione, che investono grandi somme di denaro con l’obiettivo esclusivo di ottenere il miglior rendimento. Come se non bastasse, la Carta di Milano tralascia totalmente le sanguinose guerre che si combattono in Africa e in altri continenti. È stato ampiamente dimostrato che questi conflitti rappresentano la prima causa di fame nei Paesi del Sud del mondo. E cosa dire della necessità di affermare la giustizia sociale per una equa distribuzione del cibo a livello planetario? Questa è una priorità che sta davvero a cuore a papa Francesco, ma che nel documento non viene mai formulata come urgenza imprescindibile. L’unico riferimento a questo proposito, rintracciabile nella Carta di Milano, riguarda la distribuzione del cibo che altrimenti verrebbe sprecato. Un altro argomento scottante che è stato baipassato con grande nonchalance riguarda la necessità di riformare il modello di sviluppo imposto dalla globalizzazione. Un fenomeno che ha determinato disfunzioni sistemiche: da un lato inedia e pandemie per molti, dall’altro sovrabbondanza per pochi. Inoltre, nella Carta di Milano non si parla assolutamente del controllo dei mercati alimentari da parte dei governi. Col risultato che è stata letteralmente ignorata la questione della proprietà intellettuale delle sementi, in riferimento agli Organismi geneticamente modificati (Ogm). E cosa dire dei sussidi che la Commissione Europea regala alle multinazionali agroalimentari permettendo loro una concorrenza sleale verso i produttori locali. Inoltre, nella Carta non si dice assolutamente niente degli accordi commerciali tra l’Europa e l’Africa (gli Epa) che distruggono, ad esempio, l’agricoltura africana. Dispiace doverlo dire: la Carta di Milano è un documento redatto in un contesto anni luce distante dalle periferie del mondo. Chissà se nel frattempo i suoi estensori avranno il coraggio di riscriverla? Altrimenti sarà l’ennesima occasione persa. Siamo davvero ancora anni luce distanti dalla dimensione dialogica tra Europa e Africa auspicata dal poeta senegalese Léopold Sédar Senghor, quella dell’incontro solidale, dell’appuntamento del “dare e del ricevere” rendendo i rapporti tra i due continenti davvero paritari.

Giulio Albanese
Missionario comboniano, fondatore di MISNA (Missionary International Service News Agency), docente di “giornalismo missionario/giornalismo alternativo” alla Gregoriana e direttore di “Popoli e Missione”.

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